[:it]Storia, declinazioni e uso del whisky (o whiskey?) raccontati da Walter Gosso[:]

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di CORRADO LARONGA

Si scrive Whisky o Whiskey? Single Malt o Blended? Giovane, invecchiato o torbato? In questa intervista didattica impareremo a conoscere il whisky (e anche il whiskey) grazie a uno dei suoi appassionati più colti: Walter Gosso.

 

Walter, partiamo da un classico “dove, come, quando” nasce il whisky?

Volentieri, perché si tratta di un percorso molto meno scontato di quanto si possa immaginare. Innanzitutto, e qui c’è la prima sorpresa, pare che a “inventarlo” non furono gli scozzesi ma gli irlandesi, addirittura una leggenda popolare, da prendere quindi con beneficio del dubbio, vuole che già nel lontano 432 San Patrizio abbia effettuato la prima distillazione proprio in Irlanda. Andiamo con ordine. San Patrizio la distillazione può anche averla fatta, ma con quali strumenti? E per caso l’Italia c’entra qualcosa? L’invasione araba del Sud Italia, avvenuta tra l’VIII e il X secolo, portò, tra le altre cose, anche uno strumento oggi noto a tutti: l’alambicco. Gli arabi lo usavano per distillare essenze, non certo bevande alcoliche, ma intorno al 1100 la Scuola di Medicina di Salerno distillò per la prima volta l’Aqua Vitae, la base di tutte le distillazioni, usata all’epoca più che altro a scopo medico. Fu poi tra il 1250 e il 1300 che il medico alchimista Arnaldo di Villanova, trovandosi a Montpellier in Francia per distillare Aqua Vitae, iniziò a utilizzare durante il processo altri ingredienti, soprattutto erbe (tanto è vero che la distillazione del Gin è in qualche modo legata anch’essa alla Scuola di Salerno), gettando così una base importante per i futuri esperimenti

 

Ma quando nasce il whisky come lo conosciamo oggi?

Nel 1200, durante alcuni conflitti tra Irlanda e Inghilterra, si dice che nella zona di Bushmills i comandanti inglesi abbiano fatto bere ai propri soldati un distillato conosciuto come Uisge-Beatha (la traduzione gaelica di Aqua Vitae), per infondere loro coraggio. Dobbiamo però aspettare il 1360 per trovare il primo manoscritto in lingua celtica che insegna a fare l’Uisge-Beatha: il Red Book of Ossory, scritto da Richard Ledred, Vescovo di Ossory. Di lì a poco si ha notizia di una gran diffusione del distillato in tutta l’Irlanda, soprattutto nei monasteri, accompagnato da una fama sempre crescente che dovette arrivare perfino alle orecchie del Re di Scozia Giacomo IV, che nel 1488 cominciò ad acquistarne in grande quantità per poterlo studiare in patria. Nel 1494 troviamo poi il primo manoscritto scozzese che parla di Aqua Vitae e sempre di quel periodo sono diversi documenti di acquisto di malto e di orzo, evidentemente per la distillazione. La nascita del whisky come oggi lo conosciamo à avvenuta allora.

 

Perché, se non è nato in Scozia, sono gli scozzesi nell’immaginario comune a esprimerne la forma migliore?

Perché lo hanno reso un prodotto diverso rispetto alle origini e perché sono riusciti a conferirgli qualità uniche, grazie anche alla grande varietà di materie prime che la biodiversità del territorio offre. Hanno affinato l’utilizzo della torba e dell’invecchiamento, hanno conferito intensità al prodotto finale distillandolo due volte contro le tre degli irlandesi. Insomma, non è  nato in Scozia ma è lì che è diventato grande. Gli irlandesi oggi sono famosi per avere un whiskey più facile da approcciare, mentre quelli scozzesi sono più complessi, più alcolici e soprattutto vanno incontro a diversi processi di invecchiamento che ne esaltano le caratteristiche organolettiche e danno vita a una varietà infinita di sfumature.

 

Direi che a questo punto è ora di parlare di varietà. Ci chiarisci le differenze tra le tipologie di whisky, magari partendo dall’eterno dubbio: si scrive con o senza “e”?

Partiamo da whisky e whiskey allora (ride n.d.r): non si tratta due tipologie diverse di whisky ma solo di una differenza linguistico di derivazione geografica: “whisky” è la dicitura scozzese, “whiskey” quella irlandese.

Abbiamo poi le differenze che riguardano la composizione, quindi partirei dalla categoria dei Blended, cioè prodotti che sono il risultato di blend di diverse tipologie di whisky, spesso referenze eccellenti e probabilmente le migliori con le quali cominciare ad approcciare questo distillato. In questa categoria troviamo il Blended Malt, cioè è un blend di whisky di malto, Blended Grain, blend di whisky di grano, Blended Scotch Whisky, cioè un blend di whisky di malto e di grano, Pot Still Irish Whiskey, un blend di orzo maltato e non maltato e infine il Blended Irish Whiskey, un blend generico. Le diciture “Scotch” e “Irish” determinano naturalmente la provenienza: dalla Scozia i primi, dall’Irlanda i secondi.

Ci sono poi i Single Malt e i Single Grain, whisky che provengono da un singolo cru di malto o di grano e da un singolo raccolto.

La differenza più importante tra i diversi whisky la fa comunque l’invecchiamento. I whiskey irlandesi invecchiano molto meno rispetto ai whisky scozzesi e anche la torbatura è una pratica molto più diffusa in Scozia che in Irlanda. Per finire, in Irlanda ci sono anche gli Irish Cream, cioè creme di Whiskey, liquori alla crema di latte prodotti con almeno 1% di whiskey, mentre il resto è alcol che proviene anche da altri distillati di origine agricola.

 

Secondo te, a questo punto, sono meglio i whisky irlandesi o quelli scozzesi?

Secondo me non c’è un prodotto tecnicamente migliore o peggiore. Tra gli Scotch c’è il brand o la regione che può piacere di più, così come tra gli Irish. È solo questione di gusti, i prodotti sono comunque eccellenti.

 

Non solo Scozia e Irlanda producono whisky: parliamo del resto del mondo?

Certo, e comincerei subito dagli Stati Uniti dicendo che la grande influenza irlandese dovuta all’immigrazione ha fatto sì che negli USA la parola whiskey si scriva all’irlandese, quindi con la “e”. Spesso si trova anche la dicitura Bourbon, in riferimento alla contea di Bourbon nello Stato del Kentucky, dove nacque il primo disciplinare. Inizialmente poteva essere prodotto solo in zona, mentre oggi ovviamente si può produrre in tutti gli Stati Uniti. Per disciplinare, il Bourbon può fare un solo giro di invecchiamento nelle stesse botti, che vengono poi rivendute ad altri produttori che possono farci invecchiare i loro distillati. Passiamo alle diverse tipologie a cominciare dal Kentucky Bourbon, un whiskey prodotto esclusivamente in Kentucky che deve essere fatto di mais per un minimo del 51%. La stessa percentuale, ma di segale, caratterizza invece il Rye Whiskey, tipico delle zone più fredde per via della facilità nella coltivazione di questo cereale. Troviamo poi il Tennessee Whiskey, che segue lo stesso disciplinare del Bourbon ma deve essere esclusivamente distillato in Tennessee. Viene inoltre filtrato attraverso uno strato di carbone di legno di acero prima di essere trasferito nelle botti, ed è un prodotto molto particolare, direi per intenditori. Infine abbiamo il Single Barrel, che letteralmente significa “singola botte”, quel whiskey cioè che ha cominciato e terminato il processo di invecchiamento in un’unica botte.

 

Di recente si sono affermati sul mercato anche i Whisky giapponesi. Cosa ne pensi?

I Blended giapponesi sono degli ottimi prodotti. Caldi, rotondi e profumati, sono l’ideale per cominciare ad approcciare e apprezzare il whisky, non per niente hanno spopolato negli ultimi anni e vinto per due volte consecutive il premio “The Best Whisky in the World”.
Naturalmente non è un prodotto che nasce oggi: all’inizio del 1900  c’erano già le prime licenze per la distillazione di cereali nel Paese del Sol Levante. Masataka Taketsuru è considerato in Giappone uno dei padri fondatori del whisky, i cui segreti apprese in Scozia e applicò al suo ritorno, arrivando a fondare la sua società nel 1934 e a creare la sua distilleria, Nikka, nel 1952 sull’isola di Hokkaidō.

 

Altri Paesi da segnalare?

Sicuramente il Canada, i cui whiskey sono prodotti principalmente con la segale e si avvicinano molto allo stile americano. Da citare il Canadian Whisky, che è un blend di diversi malti e il Canadian Rye Whiskey, con segale al 51%. Oggi comunque si può produrre whisky in ogni parte del mondo, le definizioni sono ormai praticamente solo geografiche. Si produce whisky in Italia, Galles, Tazmania, Francia, Australia… dappertutto! Ovviamente non saranno mai Scotch o Irish, per esempio, perché ogni tipologia di whisky ha comunque, per fortuna, i suoi disciplinari precisi e alquanto restrittivi.

 

Se dovessi consigliare un neofita nell’approccio al whisky, come partiresti?

Dovrei sicuramente partire dal prodotto più semplice per cercare di non spaventare un palato ancora non abituato. Opterei quindi per un Blended, non perché siano prodotti di qualità minore ma perché sono meno complessi e di più facile approccio. Se poi l’esperienza piace, allora si può gradualmente crescere, magari con Blended invecchiati prima di passare ai Single Malt delle diverse regioni, lasciando ancora da parte i torbati. Quando poi cominci ad avere tra le mani e ad apprezzare un bicchiere di 12 anni si può parlare dell’invecchiamento del whisky e della differenza tra le botti, perché il legno a quel punto la fa da padrone, gli aromi cambiano, la freschezza dei whisky più giovani si perde e vengono fuori nuove, splendide note. Una volta fatta conoscenza con gli invecchiamenti più importanti (15/18 anni) si può passare ai torbati, le cui denominazioni sono Peted, il torbato generico, e Islay, il torbato prodotto esclusivamente sull’omonima isola fatta di torba. Si tratta di prodotti per intenditori, che necessitano di un palato preparato.

 

Consiglieresti ai lettori di MT Magazine un cocktail con il whisky?

Ve ne consiglio tre: Rob Roy, Manhattan, e Penicillin, un cocktail recentemente entrato nel catalogo IBA. I primi due sono cugini: il Manhattan si fa con il Bourbon o con Rye Whiskey. Io lo preferisco in parti uguali  Vermouth rosso e Bourbon e due dash di angostura, fatto in mixing glass, mescolato con stirrer e infine messo in coppetta.

Il Rob Roy invece viene preparato con lo Scotch: parti uguali di Scotch e Vermouth, due dash di angostura o di orange bitter, fatto in mixing glass, mescolato con stirrer e infine messo in coppetta.

Come decorazione per entrambi è perfetta una ciliegina maraschino e una scorza di arancia.

Il Penicillin invece è un cocktail che si sta affermando nella nuova miscelazione del whisky.

Gli ingredienti sono Blended Scotch Whisky, sciroppo di miele e zenzero, succo di limone. Si shakera, si serve on the rocks in un tumbler e poi si termina con una piccola parte di whisky torbato. Come decorazione, zenzero candito.

 

Ultima curiosità: il whisky si beve solo liscio?

Il whisky si dovrebbe sempre bere accompagnato con acqua, dosandola per aprire la rosa degli aromi ed eliminare la parte pungente dell’alcol. E no, non è un’eresia servirlo on the rocks, ma il ghiaccio ovviamente deve essere puro e cristallino. E non dimenticate: un buon dram di whisky al mattino migliora la giornata!

 

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