[:it]Intervista a Stefano Nincevich, giornalista e scrittore[:]

[:it]Stefano, leggendo il tuo curriculum scopriamo che sei giornalista, scrittore e persino musicista. Tu come ti definisci?

Diciamo che quelle che hai elencato sono tutte passioni che nel corso del tempo ho messo insieme come fossero le tessere di un puzzle. Mi definisco principalmente un giornalista e da 17 anni mi occupo di Bargiornale, una rivista che abbraccia il mondo del bere di qualità a 360°. Così, la nascita di Cocktail Safari è avvenuta quasi di conseguenza, quando ho sentito la necessità di raccontare la storia dei cocktail e al tempo stesso i viaggi che ho fatto in giro per il mondo per poterli assaggiare nei loro luoghi d’origine. È un progetto che ho realizzato a quattro mani con Andrea Fumagalli, “Andy”, dei Bluvertigo, che oltre a essere un grande musicista è anche un artista straordinario. A lui si devono le illustrazioni di Cocktail Safari, che insieme alle storie che le accompagnano contribuiscono a rendere la narrazione veramente unica.

In un mondo in cui tutti parlano di cucina, com’è che tu hai scelto di parlare di mixology?

Mi sono appassionato al mondo dei locali serali fin da molto giovane. Considera che nei primi anni 2000 c’era ancora la coda del boom dell’happy hour, specialmente a Milano, una formula grazie alla quale molti nuovi clienti sono entrati in contatto con il mondo della mixology che prima né conoscevano né prendevano in considerazione. Fino a metà degli anni Novanta si andava al pub per bere una birra o al massimo un bicchiere di vino. Di cocktail nessuno sentiva il bisogno. Erano considerati roba da Pleistocene. E se le ultime generazioni di barman hanno avuto l’occasione di riportare alla luce i grandi classici lo dobbiamo anche a tanti ex ragazzi, un tempo noti come “il popolo dell’abbufet” e ai baristi.

Che differenze ci sono secondo te tra la miscelazione di oggi e quella di 10 anni fa?

Credo che la miscelazione di oggi segua un filone “Back to basic” che si divide in due tendenze: da un lato c’è la riscoperta dei cocktail storici che è figlia di un movimento nato a sua volta negli anni ’90, quando negli Stati Uniti si diffuse la moda di recuperare drink dimenticati e addirittura quelli che in gergo definiamo “fossili”, risalenti cioè al 1800 o addirittura al 1700. L’era digitale ha poi permesso l’accesso a una serie infinita di informazioni che prima era molto più difficile trovare, per cui i giovani bartender hanno cominciato a studiare e riproporre tecniche, cocktail e ingredienti tipici di epoche passate, trasformando di fatto i bar da semplici luoghi in cui si beveva a luoghi di ricerca in cui i drink diventavano un’esperienza a sé, senza bisogno di elementi di contorno come la musica o gli spettacoli. In Italia è un fenomeno che è arrivato molto tempo dopo ed è esploso in particolare negli ultimi 10 anni.

E la seconda tendenza?

Direi che è nata negli ultimi quattro anni ed è sempre una branca del “back to basic” tutta concentrata sull’ingrediente. Lo studio che molti bartender oggi fanno della materia prima ha dato origine a una miscelazione in un certo senso trasversale, che abbraccia cioè conoscenze altre come la fisica, la chimica, l’erboristeria e la gastronomia. Il cocktail diventa così un’esperienza totale che inizia e si conclude nel bicchiere. In seno a questa tendenza è nata la filosofia della “liquid kitchen”, cioè l’uso di ingredienti, tecniche e strumenti di lavoro tipici della cucina applicati al mondo della miscelazione. Sempre più spesso si sente parlare di cocktail a km0, perché anche il territorio ha una grande importanza in questo nuovo movimento, così come il riutilizzo, una scelta etica che dà origine a gusti mai provati prima.

Quali sono le caratteristiche che deve avere oggi un buon bartender?

Prima di tutto secondo me deve essere un ottimo comunicatore. Il bancone del bar è un po’ il palcoscenico di ogni bartender, ma non bisogna dimenticare che gli attori principali sono i clienti. Il buon dialogo è fondamentale perché è parte integrande dell’ospitalità, fin dai tempi antichi. Un bartender che non sappia, o peggio, non voglia dialogare e che si nasconda dietro un’autoreferenzialità figlia dei tempi ha perso di vista l’obiettivo: far star bere i suoi clienti. Inorridisco di fronte alle prese di posizione ingiustificabili di alcuni bartender come il rifiuto di servire certi tipi di drink. Se tu non vuoi fare gli spritz e un cliente te ne ordina uno non è colpa del cliente ma tua, perché evidentemente non hai saputo comunicare che nel tuo bar si beve in modo diverso. A nessuno verrebbe mai in mente di ordinare un cheeseburger in un ristorante stellato.

Qual è il tuo cocktail preferito?

Non esiste, perché non ce n’è uno solo. I miei cocktail preferiti sono il Ti’ Punch che ho bevuto quella sera in Martinica, sono il Margarita Frozen che ho bevuto su quella spiaggia a Cancún, sono il Negroni Sbagliato che ho bevuto mentre intervistavo il suo inventore, Mirko Stocchetto, che purtroppo ci ha lasciati. I miei cocktail preferiti non sono cocktail ma esperienze in forma liquida che non possono essere estrapolate dal contesto perché sono esse stesse il contesto, la sua storia e i suoi personaggi.

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