[:it]Sake: la produzione e i quattro ingredienti necessari[:]

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Dopo un primo capitolo di approfondimento sul sake affrontato con il fondatore di Sake Company e responsabile italiano della Sake Sommelier Association Lorenzo Ferraboschi, è sempre con lui che andiamo ad approfondire ulteriormente questo fermentato giapponese di riso dalle mille sfaccettature, andandone a scandagliare alcuni interessanti aspetti della produzione.

 

Il sake e i passaggi chiave della produzione

Il sake è una bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione del riso in tutte le prefetture del Giappone, ma anche in altre parti del mondo. Viene prodotto seguendo un processo di 8 passaggi totali:

  1. Sbramatura del riso, in cui il chicco viene levigato con appositi macchinari per ridurre grassi, proteine e minerali, fino a ottenere la percentuale di riso rimanente necessaria
  2. Preparazione del riso, che viene prima lavato accuratamente, poi messo in ammollo e infine sbollentato a vapore
  3. Aggiunta del koji, un fungo (Aspergillus oryzae) che viene cosparso su parte del riso sbollentato e permette la saccarificazione dell’amido
  4. Preparazione dello shubo, passaggio in cui il riso saccarificato viene amalgamato insieme ad acqua, lievito, acidi lattici (opzionale) e riso sbollentato, creando la cosiddetta “madre del sake” o shubo
  5. Fermentazione, che avviene a partire dallo shubo in taniche mantenute a temperatura controllata per un periodo che va dalle 3 settimane ai 30-35 giorni, dipende dal tipo di sake che stiamo producendo
  6. Pressatura, detta Shibori, che serve per separare la parte solida, costituita dal riso fermentato, dalla parte liquida
  7. (eventuale) aggiunta di alcol
  8. Filtraggio e pastorizzazione, fasi effettuate a preservare la qualità del sake nel tempo
  9. Imbottigliamento, passaggio non anticipato da invecchiamento o maturazione

 

 

Sake da tavola e per occasioni speciali

Come per il vino, anche per il sake esistono un’infinita gamma di tipologie, caratterizzati da note aromatiche decisamente differenti. In genere, si possono distinguere i sake da tavola e quelli aromatici. I primi sono il risultato di una lavorazione meno importante sul chicco e sono perfetti a tutto pasto in supporto al cibo – gli aromi della bevanda non devono costituire alcun paletto nell’abbinamento – mentre i secondi si ottengono da una maggior lavorazione (minor sbramatura e maggior tempo di fermentazione), motivo per il quale risultano più costosi e più adatti alle grandi occasioni, a un consumo saltuario. Nonostante questa premessa, è importante sottolineare che i primi (rappresentati primariamente dai sake futsushu) sono di estrema qualità. I futsushu sono infatti i migliori sake che la sakagura produce al prezzo più ‘corretto’. Solitamente vengono venduti nella sola zona limitrofa, mentre si tendono a preferire quelli premium per l’esportazione in tutto il mondo. Spesso i futsushu sono il risultato dei blend di sake, di ottima qualità, rimasti nella sakagura. Rappresentano il 68-70% della produzione del Giappone, non hanno un vero e proprio disciplinare e, per i produttori, non è consentito loro indicare in etichetta il grado di sbramatura.

 

Il riso gli dà corpo, l’acqua gli dà il sesso e il lievito gli dà lo stile

I produttori di sake usano dire questo motto per intendere la presenza di un procedimento complesso dietro al risultato finale, in cui ogni fattore è capace di influenzare in piccola parte il risultato finale. Il koji gli dà lo zucchero, quindi l’energia, il riso gli dà più o meno struttura o corpo – con un riso edibile si ottiene una struttura più leggera – l’acqua rende il sake più piccante e forte se minerale e ricca di calcare e più elegante e meno spigoloso se povera in minerali e i lieviti gli danno lo stile, che può essere floreale, dalle note di caramello, banana, ecc… A differenza del vino, qui non conta solo la materia prima di base, il riso, ma una serie di fattori che vanno a rendere il sake una bevanda decisamente più complessa.

 

 

Le tipologie di riso

Con circa 250 varietà differenti, la Japonica è la tipologia maggiormente coltivata in Giappone, separate in due macrocategorie: la Sakamai, ovvero le tipologie di riso coltivate apposta per la produzione di sake, e l’Hanmai, ovvero il riso da tavola, meno pregiato ma allo stesso tempo utilizzabile per il processo. La prima è edibile e molto simile al nostro Carnaroli mentre la seconda è povera in amido, che non la rende adatta alla produzione di sake. In questo caso si ottiene un risultato più strutturato e beverino, inteso in senso di corposità della bevanda.

 

L’acqua utilizzata

Il sake è fatto per l’80% di acqua e spesso le sakagura (cantine del sake) sono posizionate in aree famose per la purezza dell’acqua sorgiva. In Giappone l’acqua è generalmente molto leggera e lo è ancora di più nel caso di quella adatta per il sake, che è ricca di potassio, sodio e magnesio, e povera di ferro e manganese. Si dice che l’acqua di Miyamizu originaria dei dintorni di Kyoto dove nacque il sake, ricca di minerali e che conferisce un risultato finale piccante, sia più pregiata anche per via di una leggenda. Nell’epoca Edo, un produttore di sake aveva due sakagura, una nella fonte Miyamizu e una a mezza giornata di cammino. Nella fonte Miyamizu il sake era ottimo e nell’altra sakagura non altrettanto. Credeva inizialmente che fosse un problema dei curabito (le persone addette alla produzione di sake), così li invertì e non cambiò nulla. Poi invertì il riso e ancora niente. Allora decise di portare l’acqua con le botti (tari) e lì capì qual era l’elemento che faceva la differenza. L’acqua della sakagura a mezza giornata di cammino era molto ricca di ferro e manganese, che al sake conferisce un gusto molto amaro e che favorisce una veloce ossidazione della bevanda.

 

 

Il koji

Si tratta di una spora fungina naturalmente presente sulle piante di riso, utilizzata dalle sakagura giapponesi per ottenere la saccarificazione degli amidi del riso. In questa fase i carboidrati del riso vengono scissi in zuccheri semplici, i quali sono fermentabili. La spora specifica che si utilizza è l’Aspergillus oryzae sake e vi sono alcune realtà dedicate al suo isolamento. Si chiamano kojijan, o produttori di koji.

 

Il lievito

Come nel vino e nella birra, anche nel sake c’è un lievito (kobo) che viene utilizzato per la trasformazione degli zuccheri in alcol. A seconda del risultato aromatico desiderato, si utilizzano specie differenti di lieviti, selezionate negli anni per ottimizzare e migliorare la qualità della fermentazione del sake. Vi sono vari tipi di lieviti, tutti numerati a partire dal 1910. Possono essere dello stato, della regione, delle associazioni di categoria, esclusivi di una sakagura. Ce ne sono anche di realizzati con lieviti da vino. Oltre a CO2 e alcool, il lievito genera composti aromatici, che caratterizzano una bottiglia rispetto a un’altra. Tutti i lieviti selezionati e numerati sono in grado di resistere al grado di acidità nella quale si trovano a fermentare.[:]

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