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Rispetto a un tempo sono sempre più frequenti i cocktail bar di ricerca, quelli in cui vengono utilizzati home made a base di frutta e, non di rado, anche di verdura. C’è però un cocktail che, già all’inizio del secolo scorso, era stato precursore di questi gusti e del quale oggi si festeggia la giornata nazionale, il Bloody Mary. Nato negli anni ’20 grazie al barman francese del New York Bar Fernand Petiot o nel 1939 grazie alla creatività dell’attore George Jessel in vacanza a Palm Beach – queste sono le due leggende più accreditate – il cocktail era inizialmente composto solamente da due ingredienti chiave – vodka e succo di pomodoro – come recita la colonna “This New York” di Lucius Beebe pubblicata il 2 dicembre 1939 nel quotidiano statunitense New York Herald Tribune.
Solo con il tempo il Bloody Mary è diventato quello che conosciamo oggi. Nel numero di luglio 1964 del New Yorker Magazine il francese Fernand Petiot sosteneva di aver ricoperto un ruolo fondamentale nell’evoluzione dello stesso, aggiungendo “quattro grosse prese di sale, due di pepe nero, due di pepe di Caienna” sul fondo del bicchiere “e uno strato di salsa Worcestershire”, oltre a una “spruzzata di succo di limone e del ghiaccio tritato, […] due once di vodka e due di spesso succo di pomodoro”. A quei tempi, egli lavorava nella King Cole Room, dove serviva 100-150 Bloody Marys al giorno.
Quando si parla di Bloody Mary, diventa d’obbligo parlare dell’origine del nome, sulla quale sono nate quattro ipotesi più accreditate delle altre. C’è chi lo associa alla ‘sanguinaria’ regina d’Inghilterra Maria Tudor I, così chiamata per le condanne a morte degli oppositori protestanti verso il ristabilimento del cattolicesimo, chi alla star di Hollywood Mary Pickford, chi a un bar di Chicago, il Bloody Bucket, dove lavorava una cameriera di nome Mary e dal quale provenivano i due primi possibili clienti che lo assaggiarono e chi, infine, a una ragazza di nome Mary sepolta viva per errore, la quale lanciò una maledizione – la comparsa di una strega assassina – a chi avesse tentato di pronunciare per 3 volte ‘Bloody Mary’ davanti a uno specchio.
Ciò che è indubbio, invece, è che il Bloody Mary sia stato oggetto, negli anni, di numerose interpretazioni. Le più comuni rimangono probabilmente la variante con l’aggiunta di un gambo di sedano – in voga negli anni ’60 per via di un ospite della “Pump Room” dell’Ambassador East Hotel di Chicago – l’analcolica Virgin Mary, il Ruddy Mary, con il gin in sostituzione della vodka, e il Bloody Geisha, con il sake al posto del distillato dell’Europa orientale. Nel tempo, alla ricetta IBA si sono affiancate numerose rivisitazioni locali e in Italia un bartender che, più di altri, si è dimostrato interessato al tema è Agostino Galli del Lacerba Milano.
Nel suo locale le versioni proposte in carta sono 11: dall’iconico Maria Lacerba con tabasco verde e vodka al peperoncino allo Smockey Mary arricchito da Whisky torbato e sale affumicato al legno di faggio italiano, fino allo Yellow Sub – Maria, con tequila infusa al peperone giallo e curcuma. Il trucco per preparare un buon Bloody Mary è quello di effettuare una scarsa diluizione del succo di pomodoro e al contempo un grande raffreddamento e una giusta miscelazione degli ingredienti nel cocktail. La tecnica migliore risulta quindi quella del throwing che nel caso dei twist proposti al Lacerba non è troppo intenso, per evitare un risultato troppo liquido.
Ecco gli ingredienti della ricetta IBA a confronto con quelli dei due twist di Agostino Galli con la vellutata di pomodorini gialli: il primo alcolico e il secondo analcolico.
Ricetta IBA:
Ricetta Agostino Galli – Malavoglia:
Ricetta Agostino Galli – Tutti pazzi per Mary:
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