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Co-protagonista del successo mondiale dell’Artesian – primo cocktail bar al mondo secondo la 50 Best Bars dal 2012 al 2015 – Simone Caporale è stato uno dei primi bartender, insieme al socio Alex Kratena, a servire i cocktail in contenitori differenti dai canonici bicchieri nel XXI secolo. Lasciato il bancone, si è dedicato a numerosi progetti, anche di stampo sociale, e a un nuovo locale a Barcellona.
Ciao Simone, da dove sei partito per arrivare a essere il professionista che sei oggi?
Sono partito dal bar, come tutti. Ho iniziato a lavorare sul Lago di Como nel 2003, raccogliendo e lavando bicchieri in una discoteca. Ho fatto 5 anni in Italia come bartender, poi un anno a Valencia, uno in Italia e poi sono venuto a Londra nel 2009. Dopo alcune esperienze in bar di medio livello, nel settembre 2010 sono arrivato all’Artesian, dove stavano cercando un bartender, visto che da poco se ne era andato Marian Beke. Grazie all’aiuto di Agostino Perrone, che mi ha permesso di poter riportare la sua referenza nel CV. È stato sorprendente e me ne ricordo tuttora. Infatti, quando un collega giovane mi scrive lo aiuto, perché il segreto della sopravvivenza è aiutarsi l’un l’altro.
All’Artesian hai avuto un importante mentore, Alex Kratena. Su quali aspetti avete costruito il successo all’interno di un contesto d’hotel? In quali lati l’Artesian è stato di rottura?
Sul lavoro di squadra e su un background molto simile. Siamo nati in due piccoli paesi dell’Italia e della Repubblica Ceca e ci siamo trovati catapultati in un mondo lussuoso a cui non eravamo abituati. Abbiamo così cercato di conquistare la clientela, non avendo paura di sbagliare e al contrario osando. Noi presentavamo i cocktails in modo scenografico e le reazioni dei nostri clienti erano sbalorditive, ma vorrei ricalcare il fatto che oltre ai cocktails per noi era fondamentale l’essenza di un vero bar, ossia fare sentire bene le persone che venissero da noi. Il problema principale di un hotel non credo sia il cliente ma il management, che non vuole prendersi nessun rischio tantomeno delle responsabilità aggiuntive. Nel nostro caso si fidava ciecamente di noi e in questo senso non abbiamo avuto limiti. L’Artesian è stato di rottura in diversi ambiti.: innanzitutto nell’approccio con qualsiasi tipo di persona, dalla famiglia reale fino all’addetto al settore cui venivano spesso a vivere l’esperienza. In fatto di cocktail, invece, ci siamo chiesti dei perché e ci siamo dati delle risposte. Perché non si può servire un cocktail come una granita? Perché non si può esagerare la dimensione dell’ombrellino inserito nel cocktail? Uno di quelli iconici è stato quello che abbiamo realizzato quando volevamo offrire una decorazione diversa da persona a persona. Così, abbiamo pensato di creare un contenitore dal quale si beveva guardando uno specchio. Si chiamava Forever Young e lo ideammo nel 2013. Un altro esempio è il Langham Martini, un cocktail in cui il Martini veniva servito in un bicchiere di ottone ricoperto di nichel e argento in grado di mantenere la temperatura costante per più tempo possibile. Se fino a quel momento le persone chiedevano un tipo di gin, da lì in poi chiesero quel bicchiere.
Che riscontro avete avuto inizialmente dai vostri clienti? In cosa vi siete distinti dagli altri cocktail bar e in cosa siete stati precursori? Vi aspettavate di essere nominati come primo bar al mondo per 4 anni di fila?
L’85% delle persone era molto divertito, il 10% ci odiava, ma tornava ogni due settimane, e il restante 5% non veniva, ma mandava gli amici per fare le foto e riprodurre l’idea nel proprio bar. In quegli anni abbiamo imparato che se aspetti il consenso di tutti non farai mai niente e, nel nostro caso, avevamo in un certo senso anche l’appoggio di chi non ci apprezzava. Abbiamo provato, fin da subito, a creare una nostra identità nell’esperienza del bere, motivo per il quale nell’ultimo anno e mezzo avevamo il 70% della clientela esterno. Abbiamo puntato molto sia sulla forma di come bere il drink che sul suo contenuto: se per i primi abbiamo creato la tendenza di servire i cocktail in recipienti che vadano oltre ai soliti bicchieri – purtroppo alcuni bar adesso puntano troppo su questo aspetto – per i secondi abbiamo sviluppato sapori nuovi, come incenso e carota, verjus e quercia, grazie all’utilizzo di olii essenziali delle piante. Non abbiamo mai pensato di vincere riconoscimenti del genere ma crediamo di averli ottenuti perché nel nostro locale il tempo si fermava e i clienti vivevano un’esperienza.
La cosa più strana che ti sia mai capitata dietro il bancone dell’Artesian? Perché l’hai abbandonato?
Una sera c’erano una signora e un signore da soli al bar. Ho quindi pensato di rompere il ghiaccio, dividendo un Mai Thai (che avevo appena preparato per errore in una ordinazione al tavolo) in due bicchierini che ho offerto loro. Si sono conosciuti, si sono dati appuntamento, si sono sposati, hanno avuto un figlio e ogni anno durante il loro anniversario mi scrivono ringraziandomi per averli fatti conoscere. Ho lasciato l’Artesian nel 2015 perché non avevo più stimoli. Abbiamo fatto in modo che questa inerzia durasse il più possibile e, arrivati a quel momento, io e Alex abbiamo deciso di sviluppare progetti insieme. PourDrink, uno di questi, è una onlus che per quattro anni ha organizzato un simposio gratuito con speaker da paesi diversi, su specifici temi come il genere femminile, il professionista moderno o il perfezionismo. Altri progetti che ci vedono co-protagonisti sono lo sviluppo del brand di Italicus, e Muyu Liqueurs.
Che cos’è Muyu Liqueurs?
Muyu è una linea di tre diversi liquori – al chinotto, al gelsomino e al vetiver – sviluppati con Alex Kratena e Monica Berg. Sono tre prodotti facili da miscelare, distribuiti in Italia da Velier, con una buona acidità, ottimi da bere lisci o in abbinamento a un vermouth o a un distillato invecchiato. Nell’azienda sono socio, la miglior condizione ella quale mi sento stimolato a lavorare nei progetti, perché si ottengono risultati solo a fronte di sforzi.
Quali altri progetti hai all’attivo? Ce li racconti?
Altro progetto di cui mi occupo insieme alla famiglia Diplomatico Rum, è Canaima, un gin prodotto in Amazzonia da popolazioni indigene con 19 varietà botaniche, distribuito da Compagnia dei Caraibi. Se da un lato il progetto non ha fini remunerativi, dall’altro ci dà grande soddisfazione vedere le persone che hanno un tetto nuovo e i loro figli andare a scuola, oltre alla riforestazione dell’ecosistema amazonico. Il terzo progetto è quello dei ‘distillati senza alcool’ Zeo, dal profumo che ricorda la grappa e dalla caratteristica sensazione di bruciore. La quarta e ultima idea è Flavour Blaster, uno strumento che permette di creare bolle di vapore sul bicchiere. È stata un’idea sviluppata all’Artesian, con un vaporizzatore che producesse vapore aromatico, senza il fumo.
Hai lasciato il bancone ma hai abbandonato anche l’idea di operare nel mondo dei locali?
No, assolutamente. Avrei voluto aprire uno spazio a Barcellona già due anni e mezzo fa ma vi erano problemi di legislazione con la struttura di un immobile che stavo per comprare. Poi, ho parlato con Marc Alvarez, all’epoca responsabile della miscelazione dei fratelli Adrià. Avevamo il desiderio comune di realizzare un bar che non fosse un bar e abbiamo sviluppato un concept in cui si servono cocktail classici e non, in un quantitativo leggermente inferiore al normale. L’abbiamo chiamato Sips, come i sorsi, una quantità indefinita di liquido che ti permette di giudicarlo, capirlo e vivere un’esperienza edonistica. In questo modo il cliente può provare più drink diversi in una sera.
Che tipo di concept è Sips Drinkery House? Che cosa si può bere e mangiare all’interno? Come saranno suddivisi gli spazi?
Sips è un cocktail bar nel quale si potranno mangiare piccoli snacks, come bao con ripieno di granchio con guscio morbido oppure hotdog di polipo. Avremo un menu di 15 signature cocktails, creati apposta per il locale, 15 classips, twist on classic miei e di Marc, che sarà il bar manager, e anche qualche proposta espressa. Abbiamo fatto realizzare degli stampi personalizzati per avere delle forme di ghiaccio e dei contenitori unici, per i signature cocktail. Per esempio serviremo un cocktail in un bicchiere che diventa una camera olfattiva, dove tu sentirai il profumo del drink assieme all’aria esterna che respirerai, che ogni volta cambierà con le botaniche. Serviremo anche un cocktail, ispirato alla tecnica cromatica di Gaudì, con un mosaico commestibile sul bordo del bicchiere. Per quanto riguarda gli spazi, invece, in una prima sala verso la strada da 35 coperti vi sarà Sips Drinkery House, mentre in un’altra saletta più piccola, da 18-20 posti, vi sarà un secondo bar sperimentale che aprirà più avanti. Il design sarà moderno-minimalista con toni verde smeraldo e antracite.
Qual è il tuo cocktail preferito?
Mi piacciono tutti. Sarebbe un peccato sceglierne uno solo.[:]