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Quando ci parli assieme percepisci la sua saggezza. Sa essere umile e internazionale allo stesso tempo, nonostante la giovane età. Oggi Domenico Carella è il risultato delle sue origini, lucane, e dei tanti trascorsi all’estero, che l’hanno plasmato nel corso degli anni. Si è parlato tanto di lui e del suo Carico Milano, il cocktail bar che ha aperto in zona Navigli, ma noi crediamo che si farà altrettanto con il suo ultimo progetto. Si chiama Cans or Kegs e ce ne ha parlato nel dettaglio.
Ciao Domenico, che origini hai e da dove sei partito? È vero che hai una formazione da cuoco?
Sono nato nel 1984 a Bernalda, un paesino lucano di circa 10 mila abitanti che ha dato i natali alla famiglia del regista Francis Ford Coppola. Fin da piccolo sono stato appassionato di cucina e, all’età di 15 anni, quando mio fratello ha festeggiato il diciottesimo compleanno nella nostra cascina di campagna, sono rimasto affascinato da questo movimento di gente. Decisi che avrei voluto organizzare qualcosa del genere ogni giorno quando sarebbe arrivata l’estate. Così, a soli 16 anni preparavo panini, cocktail e mettevo musica e, dopo familiari e amici, iniziarono ad arrivare comitive di persone. Grazie al successo ottenuto, sviluppammo l’offerta pizzeria, aprimmo una sala da ballo estiva e incrementammo sempre, fino ad arrivare alla struttura che è oggi. Si chiama Senso Farm ed è un agriturismo di 10 ettari: un sogno familiare , coltivato con mio padre E mio fratello che tutt’ora lo gestisce.
Quando hai deciso di fare il bartender? Perché hai sentito il bisogno di andare all’estero?
Ero rimasto molto soddisfatto del riscontro ottenuto con Senso Farm ma volevo aprire un’attività in un centro abitato, per poter lavorare anche nella stagione invernale. In quegli anni avevo scoperto di avere un’intolleranza al glutine e così ho scelto di lavorare nel mondo più affine alla cucina. Nel 2010 ho aperto Glam Lounge Cafè a Fernandina, il primo locale che mi ha forgiato nel mondo del bar professionistico. Da lì in poi ho cercato di migliorarmi, sempre da autodidatta, fino a raggiungere, nel 2013, la vittoria della tappa di Bari nella prima edizione della Campari Barman Competition. Approdai in finale, dove mi piazzai quarto su sei e dove mi accorsi di avere una grande lacuna: l’inglese. Decisi quindi di accettare la consulenza per aprire una terrazza nel ristorante 8 ½ di Umberto Bombana a Shanghai, riuscendo a svolgere anche un ottimo lavoro come PR & Manager. Dopo un anno in Cina, nel quale riuscii a ottenere una candidatura al premio Bartender of the Year per il magazine That’s Shanghai, volai a Londra, per Galvin Brothers e per Accor Group, curando l’aspetto F&B e di intrattenimento di alcune aperture di alberghi. Essendo titolare dell’attività di cui lavoravo già da giovane, avevo una mentalità manageriale che mi ha sempre aiutato negli anni. Tornato in Italia, per una breve consulenza da Dry Milano, nel 2018 ho conosciuto uno dei fondatori di Pirata Group, un gruppo di tre ristoranti a Hong Kong per il quale ho curato 8 aperture in 10 mesi.
In cosa ti ha fatto crescere l’oriente? Quanto la miscelazione londinese è diversa dalla nostra?
Shanghai mi ha fatto crescere molto dal punto di vista delle relazioni personali, sia per il contesto che per la mansione che mi era stata richiesta. Per rispondere alla seconda domanda, personalmente non credo che ci sia qualcuno più avanti di qualcun altro: credo invece che ci siano contesti con un’audience più adatta alle sperimentazioni, come Milano. Lo stesso Carico, in qualsiasi altra grande città d’Italia, forse non avrebbe avuto lo stesso successo. A Milano il pubblico è pronto ad ascoltare e sperimentare, mentre Londra è talmente grande che qualsiasi format tu apra riuscirai sempre a trovare il tuo pubblico. Il bartender medio italiano è molto più preparato sulla materia prima rispetto a qualunque altro posto del mondo, ma è poco pronto a lavorare in team, con un ruolo ben definito. In Italia la figura manageriale non c’è quasi mai ma, piuttosto, c’è il titolare che vuole fare tutto.
Perché hai scelto di tornare in Italia? Com’è cambiata Milano negli anni in cui sei stato all’estero?
A fine 2018-inizio 2019 la situazione politica di Hong Kong iniziava a incrinarsi per i rapporti con la Cina e ho quindi deciso di venire a Milano. Prima ho fatto una consulenza per la parte beverage e di ingegnerizzazione di processi per Langosteria e poi per la sezione Operations da Aimo e Nadia. Un giorno, mentre ero in via Savona, incontrai l’ex proprietario del locale dove ora c’è Carico che diceva di voler vendere e gli feci una proposta al mio amico Lorenzo Ferraboschi. Trovato l’accordo, in soli tre mesi, da novembre 2019 a febbraio 2020, abbiamo aperto. Al mio ritorno a Milano ho trovato una situazione quasi di stallo. Il 2019, in questo senso, è andato decisamente meglio e anche Carico credo abbia smosso più di qualocosa. Tanti si sono ispirati al nostro servizio, alla nostra cucina e al nostro essere eleganti e informali allo stesso tempo. Peccato che il 2020 sia andato in questo modo perché credo che Milano sarebbe cresciuta ulteriormente, nel nostro settore ma anche in tanti altri.
Come definiresti i tuoi cocktail? Qual è il tuo preferito?
I miei cocktail non sono volutamente impegnativi. Cerco di dare una particolare leggerezza in ogni drink che preparo, sia a livello di tenore alcolico, che giocando su una quantità di zuccheri e acidi non eccessiva. Al risultato finale contribuiscono tanti altri aspetti come forma e la dimensione del ghiaccio, tipo di bicchiere, lo spessore del vetro e molto altro. Non ho un solo cocktail preferito. Mi piace l’Adonis, con vermouth, sherry fino e bitter, perché amo i vini fortificati, e il Dry Martini, con Tanqueray, mancino vermouth secco, bitter all’arancia e peel di limone, per la sua immediatezza.
Quali sono i progetti personali più interessanti che hai sviluppato nel corso di questi anni?
Quando ero a Shanghai ho organizzato la prima edizione dell’Italian Cocktail Week, una manifestazione in cui tutti i cocktail venivano preparati solo con prodotti italiani. L’idea piacque molto a un mio amico svedese con cui organizzai un altro evento, il Ministry of Negroni. Servivamo polpette – la specialita della sua nazione – e Negroni e l’evento lo stanno facendo tuttora, ospitando bartender da tutto il mondo. Durante la mia esperienza ad Hong Kong, invece, ho sviluppato il concetto innovativo di uno speakeasy britannico con all’interno un pub da 15 posti a sedere, dal quale si poteva accedere a un ristorante indiano nascosto, da 300 coperti. Insieme a Carico, quest’ultima è stata tuttora la mia più bella avventura lavorativa anche perché abbiamo studiato tutto nei dettagli. Per esempio, prima di aprirlo siamo stati in India a mangiare cibo tipico per un mese.
Ci racconti COK, l’ultimo progetto che lanciato?
L’idea è nata tre-quattro anni fa quando ero a Londra, poco prima di tornare in Italia. Stavo pensando di realizzare dei cocktail premiscelati per distribuirli ai locali, in fusti e in lattine. Così mi sono messo all’opera e, dopo una ricerca di investitori e alcuni viaggi di lavoro, sono riuscito a realizzarla quest’anno. Si chiama COK, acronimo di Cans or Kegs (lattine o fusti) e abbiamo uno stabilimento di produzione a Cesenatico, dove realizziamo fusti da 3, 10 e 20 L, contenenti cinque ricette di highball e una di flat. Abbiamo scelto di partire da Spritz, Gin Gin Mule, Paloma, Gin Tonic, Americano Hibiscus e Negroni per poi andare a sviluppare anche altro come Martini, Daiquiri, Old Fashioned ecc… Con un singolo fusto, che vendiamo al prezzo di € 180, si possono decidere di realizzare 160 cocktail da 12 cl, 130 da 15 cl oppure 110 da 18 cl, per un massimo totale di 300 drinks all’ora. La quasi totalità degli ingredienti che usiamo per la realizzazione dei nostri cocktail è fatta da noi, per avere un prodotto unico. Prepariamo la soda – classica, al pompelmo e all’ibisco – il bitter, il ginger beer, il vermouth, i gin e un liquore per l’aperitivo. Ci rivolgiamo a qualsiasi locale abbia bisogno di standardizzare e/o velocizzare il servizio dei cocktail. Il nostro obiettivo è sia quello di approcciare ai cocktail bar, che fanno grandi numeri e sanno di dover servire tanti cocktail della stessa tipologia, sia ai locali che intendono implementare questo tipo di proposta, come i ristoranti e i pub, ma non hanno l’esigenza di inserire un bartender nel proprio organico. Un grande vantaggio, che a primo impatto non viene preso in considerazione, è il fatto che, avendo una standardizzazione dei costi dei cocktail, è molto più semplice gestire i conti economici, non avendo la variabile del fattore umano. L’altra realtà coinvolta, che mi ha permesso di realizzare il tutto, è la società OAK, che si è occupata dello sviluppo di brand, come aveva già precedentemente fatto aziende come Alce Nero, Cioccolati Italiani.
Come si possono acquistare? Avete pensato a una personalizzazione e a un ampliamento del progetto?
Abbiamo iniziato la distribuzione con diversi agenti e in partnership con alcuni rivenditori sul territorio nazionale. I fusti sono acquistabili dal nostro e-commerce, dove si possono trovare anche tutti i dettagli del progetto e dei singoli drink, per ciascuno dei quali abbiamo deciso di riportare la relativa storia. Abbiamo attivato un servizio su misura per i locali che vogliono una proposta ad hoc. Se ci contattano e ci chiedono di poter realizzare un cocktail sartoriale noi provvediamo a soddisfare la richiesta. Oltre all’ampliamento della gamma dei drink da noi realizzati, abbiamo realizzato anche le lattine, già disponibili sul mercato. Saranno acquistabili sul sito, anche da privati, così come una specifica linea di fusti per l’home da 3 litri con spillatore domestico. È in fase di studio anche un pop-up di COK, dove serviremo i nostri cocktail alla spina.
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